Testo di Emanuele Montibeller
Un giardino è già in sé stesso, compiutamente, un'opera d'arte?
Per Claude Monet era talmente vero da fargli dire che il proprio giardino, a Giverny, con il suggestivo specchio d'acqua, le ninfee, il ponte giapponese, dovesse essere ricordato nientemeno come il suo capolavoro. Per poi eternarlo in decine di quadri, in un'operazione di traslazione dalla realtà alla sua rappresentazione che è la quintessenza dell'arte, di fatto quasi negando a quella porzione di natura incantata, manomessa dall'abilità del pittore-giardiniere, un valore autonomo.
L'idea che l'architettura o arte del paesaggio si sia sempre avvalsa di codici e di ambiti espressivi suoi propri è ormai assodata: più interessante - e forse in parte anche inesplorato - è il tema del rapporto fra l'arte eil giardino. Con una definizione che ha il difetto, come tutte le definizioni, della sbrigatività e della provvisorietà, mi sento di dire che l'arte applicata al paesaggio debba essere sempre contemporanea. Non nel senso dei codici interpretativi canonici: ma nel senso di un con-tempo, di un adattamento dell'arte (che tradizionalmente si intende dotata di una certa fissità, immobilità) alla natura, che è ovviamente viva e mutevole.
Questo è tanto più vero quanto più ci si addentra nel Modernismo, a partire dall'immediato secondo Dopoguerra, quando sulla scena compaiono grandi maestri dell'architettura del paesaggio, Sørensen, Scarpa, Porcinai, e molti altri. Ed è poi con gli anni Settanta che prende corpo una nuova dimensione dell'opera d'arte, che si libera della sua identità di oggetto fisso e immobile, più o meno perenne nel tempo e rispondente a regole dettate da un canone specifico. L'opera d'arte diventa effimera, per usare un termine che allora era molto in voga. Installazioni, multimedialità, happening, eventi formano non solo un nuovo lessico artistico, ma diventano gli strumenti di una nuova urgenza collettiva: quella del gesto d'arte qui ed ora, della contemporaneità intesa appunto nella sua accezione più propria, il con-tempo. L'Arte Ambientale, la Land Art, i musei a cielo aperto, le performance nei giardini, la Street Art, nascono tutte dalla medesima necessità espressiva.
In Italia, e non solo, in quegli anni si assiste alla grande esplosione dei giardini d'arte, così come li intendiamo oggi. Una materia a cui ho dedicato la mia vita professionale e culturale: degli ormai numerosi parchi d'arte all'interno dei grandi giardini italiani, alcuni li ho fondati direttamente, altri ho contribuito a realizzarli, di altri ancora sono consulente artistico. Una rivendicazione non di meriti, ovviamente, ma di esperienza consolidata e affermata. Che mi fa postulare anzitutto un primo principio: un giardino è un luogo di creatività - e nel rapporto con l'arte non c'erano dubbi a proposito - ma anche di relazioni.
In primo luogo, la relazione fra il committente e l'artista: alla base di un parco c'è sempre una rappresentazione del mondo, che è propria di chi pensa il parco e ne affida ad altri la realizzazione. Una rappresentazione che è sempre l'elaborato, al fondo, di una passione, cioè di un sentire il mondo e quindi l'ambiente che si intende modellare. Un giardino è quindi un luogo delle passioni, così intese. E al tempo stesso è rappresentativo anche di altri mondi, di altri pensieri, di altre visioni.
C'è poi la relazione fra l'artista e i tecnici del paesaggio: dall'architetto, al botanico, a ogni singolo giardiniere. Ciascuno di loro non è ininfluente né estraneo alla creazione artistica, portando anzi la propria creatività dentro il farsi stesso dell'arte, suggerendo soluzioni inattese e sconosciute all'artista stesso. Questo porta a una conseguenza importante: spesso i confini fra arte e giardino diventano rarefatti, a volte spariscono del tutto. Cos'è alla fine quella porzione di natura? Un'opera d'arte essa stessa o un giardino nel quale vengano inseriti determinati elementi artistici (sculture, installazioni, ecc.)? Per me vale evidentemente la prima ipotesi, pensando ad esempio ai lavori del grande architetto del paesaggio brasiliano Roberto Burle Marx o dello statunitense Charles Jencks, uno dei più importanti esponenti dell'architettura post-moderna.
Una terza relazione fondamentale è quella fra l'artista e il luogo stesso, che io vedo bene esemplificata nell'atteggiamento di Alice nel famoso romanzo di Lewis Carroll. Una relazione di semplicità (non di facilità) fondata sulla necessità, a cui la natura riconduce sempre, della ricerca dell'essenziale.
Questo tipo di relazione è ben sedimentato nella storia, e in particolare negli ultimi secoli. Nella tradizione inglese, ad esempio, gli agglomerati urbani venivano pensati e realizzati attorno ai parchi, non viceversa. Perché si riconosceva ad essi un ruolo importante di crocevia di relazioni umane: basterebbe pensare a un esempio molto noto come lo Speaker's Corner di Londra, ad Hyde Park.
Se è lo strumento della rappresentazione di uno o più mondi e se è il luogo delle relazioni, un giardino d'arte è sempre allora anche una narrazione. Quindi un giardino è un libro. Chi lavora con la natura somma spesso in sè queste altre identità: è un filosofo, uno scrittore, un narratore.
Tutto questo porta a una visione attuale, attualissima dell'arte contemporanea: vale a dire, al ripensamento della nostra collocazione (in quanto esseri umani) nel mondo, su questo pianeta, nell'ambiente. Su questo tema oggi si gioca una parte del divenire artistico e della riflessione culturale. Se questo è più o meno sempre accaduto, anche nei secoli scorsi, la novità oggi è rappresentata dall'utilizzo che l'arte fa di altre discipline scientifiche, come la biologia o la botanica. La ricerca sull'ambiente, sulle piante, sul mondo vegetale in generale è divenuto uno dei temi fondamentali dell'arte.
Collocare un'opera d'arte in un luogo significa porre l'opera in relazione con quel contesto naturale, e proprio con quello nello specifico, dotato di certe caratteristiche e non altre. E significa scegliere come quel luogo, quel giardino, possa accogliere l'opera d'arte: secondo un atto predeterminato, cioè, o secondo una interpretazione della natura - ed è questo l'atteggiamento sicuramente più interessante. Il gesto artistico che asseconda il ritmo della natura: significa inserire se stessi nel processo evolutivo, biologico. Testi fondamentali in Italia, sotto questo profilo, sono stati scritti da Pia Pera, scrittrice e pensatrice, ma anche grande appassionata ed esperta di giardini. Ma penso anche a Ippolito Pizzetti, traduttore ed esperto di botanica, con i suoi geniali interventi settimanali sull'Espresso.
Oggi lo stesso confine identitario fra artista e giardiniere tende a sparire: spesso le due figure si sommano, ubbidendo a una necessità che è prima di tutto metodologica.
Il giardino stesso allora può diventare - per dirla con Gilles Clement, famoso biologo, scrittore, entomologo e paesaggista francese, teorico del Terzo Paesaggio - un'azione artistica e una scelta, appunto, metodologica. Non c'è solo il criterio estetico a guidare l'artista, ma anche ad esempio quello etico, del rispetto ambientale, scegliendo piante o installazioni a basso impatto.
Se queste sono le tendenze contemporanee, non stupisce che oggi gli artisti scelgano sempre più di collocare la propria azione artistica (nel suo svolgersi, oltre che nel prodotto finale) dentro la natura. È quella che si potrebbe definire la ricerca di una alleanza nuova fra uomo e natura: in questo senso, l'arte può bene rappresentare lo strumento o il percorso adeguato, non solo perché si colloca dentro il mondo e al tempo stesso lo trascende, ma per il suo portato di complessità nella semplicità del gesto artistico, per la sua capacità di affrontare - spesso meglio di altre discipline umane - la problematicità del tempo in cui viviamo.
Un giardino è già in sé stesso, compiutamente, un'opera d'arte?
Per Claude Monet era talmente vero da fargli dire che il proprio giardino, a Giverny, con il suggestivo specchio d'acqua, le ninfee, il ponte giapponese, dovesse essere ricordato nientemeno come il suo capolavoro. Per poi eternarlo in decine di quadri, in un'operazione di traslazione dalla realtà alla sua rappresentazione che è la quintessenza dell'arte, di fatto quasi negando a quella porzione di natura incantata, manomessa dall'abilità del pittore-giardiniere, un valore autonomo.
L'idea che l'architettura o arte del paesaggio si sia sempre avvalsa di codici e di ambiti espressivi suoi propri è ormai assodata: più interessante - e forse in parte anche inesplorato - è il tema del rapporto fra l'arte eil giardino. Con una definizione che ha il difetto, come tutte le definizioni, della sbrigatività e della provvisorietà, mi sento di dire che l'arte applicata al paesaggio debba essere sempre contemporanea. Non nel senso dei codici interpretativi canonici: ma nel senso di un con-tempo, di un adattamento dell'arte (che tradizionalmente si intende dotata di una certa fissità, immobilità) alla natura, che è ovviamente viva e mutevole.
Questo è tanto più vero quanto più ci si addentra nel Modernismo, a partire dall'immediato secondo Dopoguerra, quando sulla scena compaiono grandi maestri dell'architettura del paesaggio, Sørensen, Scarpa, Porcinai, e molti altri. Ed è poi con gli anni Settanta che prende corpo una nuova dimensione dell'opera d'arte, che si libera della sua identità di oggetto fisso e immobile, più o meno perenne nel tempo e rispondente a regole dettate da un canone specifico. L'opera d'arte diventa effimera, per usare un termine che allora era molto in voga. Installazioni, multimedialità, happening, eventi formano non solo un nuovo lessico artistico, ma diventano gli strumenti di una nuova urgenza collettiva: quella del gesto d'arte qui ed ora, della contemporaneità intesa appunto nella sua accezione più propria, il con-tempo. L'Arte Ambientale, la Land Art, i musei a cielo aperto, le performance nei giardini, la Street Art, nascono tutte dalla medesima necessità espressiva.
In Italia, e non solo, in quegli anni si assiste alla grande esplosione dei giardini d'arte, così come li intendiamo oggi. Una materia a cui ho dedicato la mia vita professionale e culturale: degli ormai numerosi parchi d'arte all'interno dei grandi giardini italiani, alcuni li ho fondati direttamente, altri ho contribuito a realizzarli, di altri ancora sono consulente artistico. Una rivendicazione non di meriti, ovviamente, ma di esperienza consolidata e affermata. Che mi fa postulare anzitutto un primo principio: un giardino è un luogo di creatività - e nel rapporto con l'arte non c'erano dubbi a proposito - ma anche di relazioni.
In primo luogo, la relazione fra il committente e l'artista: alla base di un parco c'è sempre una rappresentazione del mondo, che è propria di chi pensa il parco e ne affida ad altri la realizzazione. Una rappresentazione che è sempre l'elaborato, al fondo, di una passione, cioè di un sentire il mondo e quindi l'ambiente che si intende modellare. Un giardino è quindi un luogo delle passioni, così intese. E al tempo stesso è rappresentativo anche di altri mondi, di altri pensieri, di altre visioni.
C'è poi la relazione fra l'artista e i tecnici del paesaggio: dall'architetto, al botanico, a ogni singolo giardiniere. Ciascuno di loro non è ininfluente né estraneo alla creazione artistica, portando anzi la propria creatività dentro il farsi stesso dell'arte, suggerendo soluzioni inattese e sconosciute all'artista stesso. Questo porta a una conseguenza importante: spesso i confini fra arte e giardino diventano rarefatti, a volte spariscono del tutto. Cos'è alla fine quella porzione di natura? Un'opera d'arte essa stessa o un giardino nel quale vengano inseriti determinati elementi artistici (sculture, installazioni, ecc.)? Per me vale evidentemente la prima ipotesi, pensando ad esempio ai lavori del grande architetto del paesaggio brasiliano Roberto Burle Marx o dello statunitense Charles Jencks, uno dei più importanti esponenti dell'architettura post-moderna.
Una terza relazione fondamentale è quella fra l'artista e il luogo stesso, che io vedo bene esemplificata nell'atteggiamento di Alice nel famoso romanzo di Lewis Carroll. Una relazione di semplicità (non di facilità) fondata sulla necessità, a cui la natura riconduce sempre, della ricerca dell'essenziale.
Questo tipo di relazione è ben sedimentato nella storia, e in particolare negli ultimi secoli. Nella tradizione inglese, ad esempio, gli agglomerati urbani venivano pensati e realizzati attorno ai parchi, non viceversa. Perché si riconosceva ad essi un ruolo importante di crocevia di relazioni umane: basterebbe pensare a un esempio molto noto come lo Speaker's Corner di Londra, ad Hyde Park.
Se è lo strumento della rappresentazione di uno o più mondi e se è il luogo delle relazioni, un giardino d'arte è sempre allora anche una narrazione. Quindi un giardino è un libro. Chi lavora con la natura somma spesso in sè queste altre identità: è un filosofo, uno scrittore, un narratore.
Tutto questo porta a una visione attuale, attualissima dell'arte contemporanea: vale a dire, al ripensamento della nostra collocazione (in quanto esseri umani) nel mondo, su questo pianeta, nell'ambiente. Su questo tema oggi si gioca una parte del divenire artistico e della riflessione culturale. Se questo è più o meno sempre accaduto, anche nei secoli scorsi, la novità oggi è rappresentata dall'utilizzo che l'arte fa di altre discipline scientifiche, come la biologia o la botanica. La ricerca sull'ambiente, sulle piante, sul mondo vegetale in generale è divenuto uno dei temi fondamentali dell'arte.
Collocare un'opera d'arte in un luogo significa porre l'opera in relazione con quel contesto naturale, e proprio con quello nello specifico, dotato di certe caratteristiche e non altre. E significa scegliere come quel luogo, quel giardino, possa accogliere l'opera d'arte: secondo un atto predeterminato, cioè, o secondo una interpretazione della natura - ed è questo l'atteggiamento sicuramente più interessante. Il gesto artistico che asseconda il ritmo della natura: significa inserire se stessi nel processo evolutivo, biologico. Testi fondamentali in Italia, sotto questo profilo, sono stati scritti da Pia Pera, scrittrice e pensatrice, ma anche grande appassionata ed esperta di giardini. Ma penso anche a Ippolito Pizzetti, traduttore ed esperto di botanica, con i suoi geniali interventi settimanali sull'Espresso.
Oggi lo stesso confine identitario fra artista e giardiniere tende a sparire: spesso le due figure si sommano, ubbidendo a una necessità che è prima di tutto metodologica.
Il giardino stesso allora può diventare - per dirla con Gilles Clement, famoso biologo, scrittore, entomologo e paesaggista francese, teorico del Terzo Paesaggio - un'azione artistica e una scelta, appunto, metodologica. Non c'è solo il criterio estetico a guidare l'artista, ma anche ad esempio quello etico, del rispetto ambientale, scegliendo piante o installazioni a basso impatto.
Se queste sono le tendenze contemporanee, non stupisce che oggi gli artisti scelgano sempre più di collocare la propria azione artistica (nel suo svolgersi, oltre che nel prodotto finale) dentro la natura. È quella che si potrebbe definire la ricerca di una alleanza nuova fra uomo e natura: in questo senso, l'arte può bene rappresentare lo strumento o il percorso adeguato, non solo perché si colloca dentro il mondo e al tempo stesso lo trascende, ma per il suo portato di complessità nella semplicità del gesto artistico, per la sua capacità di affrontare - spesso meglio di altre discipline umane - la problematicità del tempo in cui viviamo.